Trascrizione (parte ⇒prima, ⇒seconda, ⇒terza)  - Articolo ⇒principale

[Liani 0:40:02]

Bene. Giuro che non l'ho fatto apposta, ma devo citare ancora lo Stellini, "La scuèle dai prèdis", come Liceo classico. Dallo Stellini alla fabbrica, da potenziale studente universitario a operaio reale, concreto, è il percorso compiuto da Roberto Muradore che ci spiega come il clima di quegli anni fu alla base di questa scelta.

Da studente a operaio, le ragioni di una scelta.

[Muradore 0:40:33]

Sì, allora qua passiamo dalla grande Storia alla piccola storia anche personale. Io sono dei tanti che non è stato un leader, ma uno dei tanti che ha fatto così, come poteva e voleva, il "suo", in quegli anni, soprattutto negli anni '70. Come '68 intendiamo un periodo lungo, chiaramente: non soltanto l'anno specifico.

1965, 4 dicembre, mia sorella, ginnasiale, Liceo classico, partecipa alla manifestazione per l'Università in Friuli a Udine, manifestazione che poi finì pure con le botte, da parte dei poliziotti. Ritornò a casa e mio padre gliene disse di tutti i colori. Due aspetti di quegli anni: autoritarismo e conflitto generazionale, terzo aspetto: c'è un '68 friulano ancora tutto da indagare. E' un segnale friulano, usando il termine "segnale".

Mi ricordo bene che io, ginnasiale, partecipavo, senza capirci molto, ai gruppi autogestiti, nel pomeriggio, dagli studenti più grandi perché 3 o 4 anni, tra un ginnasiale e uno faceva la seconda o terza Liceo, faceva la differenza.

A me piaceva l'idea che gli studenti si fossero presi la parola. Capivo poco ma ero contento di quel clima in cui la gente si autogestiva, senza bisogno di Professori, Presidi et simili: si erano presi la parola. Io non parlavo ma ascoltavo volentieri. Molta gente come me, in quegli anni, ha partecipato, ha condiviso: partecipava a molte riunioni, un po' di tutti i gruppi, partecipava, ovviamente, a tutte le manifestazioni; alcune le condivideva di più, altre di meno, ma era la gente comune come me, e come mia sorella, che ha dato, come dire, alimento, massa, corpo, il "corpaccione", appunto, del movimento non era affatto soltanto dai leader, era fatto da queste, da queste persone. Molta gente come me non era marxista, trotzkista, leninista... era semplicemente figlio di una cultura della ribellione, dell'incazzatura contro l'autoritarismo, dell'incazzatura contro l'”ipse dixit”, dell'incazzatura contro il dogmatismo. Era il contrario del dogma ideologico. Questo è il movimento: un magma, per cui nessuno, chiaramente, è riuscito, anche se un po' ci ha provato, a mettere il cappello su quegli anni e su quelle situazioni.

Era un sentimento ribelle, sostanzialmente anarchico, libertario, che poi si alimentava anche di altre culture, perché le buone letture sono servite, le buone letture che magari adesso ogni tanto mancano, perché c'è troppo fantasy e ci sono pochi libri, come dire, di contenuto. Episodi eroici, nessuno: le abbiamo sentite una volta perché abbiamo tolto la pedana sotto la cattedra, perché la pedana è il simbolo dell'autorità, per il fatto che uno non doveva stare più in alto, rispetto agli altri. Però questi erano gli anni, gli anni che davvero poi aiutavano a crescere in un certo modo.

D'estate, come tanti studenti, pochi nel Liceo classico, andavo a lavorare al mercato a scaricare le cassette. Finito il Liceo, in definitiva, a me, non a tutti, venne naturale scegliere il lavoro, scegliere la fabbrica: per ragioni personali, esistenziali. Non avrei mai sopportato, lo diceva prima Gino Dorigo, un futuro piccolo borghese, come si diceva allora, non avrei mai sopportato un futuro già segnato, da figlio di una famiglia piccolo borghese, e nel pensare a me stesso per sempre a fare una professione, un lavoro, mi pigliava la paranoia, per cui pensavo che la scelta operaia fosse una scelta provvisoria. Poi non è stato così. Una scelta dunque personale, innanzitutto: il rifiuto di un futuro che ritenevo, anche sbagliando, "banale", se avessi fatto altre cose. Questo si sposava poi però col fatto che indubitabilmente era la fabbrica, non altri luoghi, il luogo nel quale si esercitava l'autoritarismo, lo sfruttamento e la repressione, perché i diritti finivano, in fabbrica. Dorigo ha ragione: la fabbrica era un porto franco, diventavi veramente carne da macello, strumento di produzione, tanto per essere chiaro, per cui andare là mi sembrava giusto, perché là c'era un “di più” d'impegno da metterci, e c’erano cose e cose da fare.

Poi mi ero stufato: di discorsi di teoria mi ero... un termine, chiedo scusa alle signore, dei discorsi "segaioli" mi ero rotto le scatole, tanto per essere chiaro, come si diceva allora.

Ho incontrato la concretezza, in fabbrica, e ho capito che i lavoratori non erano "strumento" della lotta politica o sociale o rivoluzionaria, erano il “fine” dell'impegno, non lo strumento, non è banale dirlo: erano il fine, la loro condizione concreta di lavoro era la finalità, non [si doveva] usarli per altri motivi, perché le condizioni di lavoro non erano per nulla buone, erano condizioni davvero dure, per cui nella concretezza del lavoro sindacale quotidiano si tentava, a volte ci si è riusciti, di migliorare le condizioni concrete di lavoro.

Da sinistra, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto e Bruno TrentinE qua entra in ballo il Sindacato, Sindacato che per fortuna capì i fermenti sociali e il movimento di quegli anni, non tutto il sindacato, soprattutto i [sindacati] metalmeccanici che non a caso avevano tre segretari: Trentin, Carniti e Benvenuto - non è che non ho detto niente - che erano davvero la punta di diamante del Sindacato, in cui si sognava l'unità organica. Addirittura, la FIM era pronta sciogliersi, a uscire dalla Cisl per formare un unico sindacato, "unico", non "unitario"-  poi non lo si fece, per tante ragioni, soprattutto per ragioni di scuderia dei partiti, forse è anche bene, perché le diversità sono ricchezza, per cui diventare un "unicum" a volte non va nemmeno bene - però quello era: l'unità era un valore assoluto e una spinta formidabile.

In più, bisogna dire, faccio un esempio concreto, in Safau, che non era una fabbrica rivoluzionaria, no Gino?, ogni sei mesi noi delegati andavamo a discutere in Direzione se l'inquadramento professionale di tutti i lavoratori era corretto rispetto alle mansioni che svolgevano; c'era un controllo del ciclo produttivo, che adesso non c'è più, per tante ragioni, per cui anche i lavoratori, in definitiva, si erano presi la parola, non soltanto gli studenti.

[Liani 0:48:15]

Grazie. Dorigo, è sempre stato così Muradore: per tre anni compagno di banco, dal '66 al '69, guardate come sono ridotto! Per molti il passaggio dal movimento studentesco alla militanza politica, quasi sempre in gruppi della sinistra - si diceva quella volta extraparlamentare - era un percorso quasi scontato. Elia Mioni: significava passare dal particolare al generale?

Dal movimento studentesco alla militanza politica: dal particolare al generale?

[Mioni 0:48:47]

Beh, inevitabilmente sì. Devo dire, rispetto alle cose che diceva prima Gino, sugli studenti e sugli studenti dello Stellini, che l'impatto con il '68, qui con il '69, vissuto anche, come raccontato, come vita personale è inevitabilmente un passaggio generazionale, di crescita. Io venivo da una famiglia popolare, sono finito nel Liceo classico della città e questo è stato credo il primo elemento di disagio e di adesione alla ribellione, nel senso che anche questi aspetti di vita personale sono parte integrante di quel periodo, proprio perché in quel periodo c'è la scolarizzazione di massa Quello che è capitato a me è di passare attraverso tutti gli elementi di riforma della Scuola: la fine dell'esame di terza media, la fine dell'esame di quinta ginnasio eccetera... Era una scelta politica dei governi di centrosinistra, quella di aprire la scuola alla massa dei cittadini. Se oggi pensiamo che ci sono ministri, del Governo appena scaduto, che ci hanno detto che "insomma, l'Università, per cortesia lasciatela anche perdere...", abbiamo un'idea, di che cosa voglia dire ripensare oggi al '68, con un occhio che sia sì personale, ma che sia anche attento a quello che sta accadendo. Sulle cose che ci hanno detto Muradore e Dorigo sulla vita di fabbrica, credo [si possa dire] che oggi siamo vicini a quello che era il '67, in sostanza, non il '69, [Applausi] e che quindi ripensare al '68 oggi non può che partire da una frase, che è cioè "la storia la raccontano quelli che vincono". Noi in qualche maniera non siamo di quelli che hanno vinto, però ripensare a quella storia ancora qualche aiuto ce lo può dare. Quindi, il primo è questo discorso della grande entrata di migliaia e migliaia di giovani nella Scuola, il fatto di formarsi, di trovare spesso - a me per esempio è capitato - anche dei professionisti, dei professori che sono stati in grado di farti imparare un metodo critico nell'apprendimento delle materie classiche, anche nelle scuole non classiche, e che quindi ti hanno costruito una "forma mentis" che ti spingeva a cercare di ragionare, di essere critico e via dicendo. Io credo che questo alla fine ci abbia aiutato all'epoca, passando anche attraverso episodi personali. Uno degli elementi di rottura è stato quello di crescere politicamente: passare dal movimento a una forma politica, per quanto i gruppi non fossero il grande Partito Comunista, ha segnato la vita delle persone. Io per esempio della Primavera di Praga ho un ricordo personale, ero da parenti miei in Istria, in agosto, seppi la notizia alla radio la sera: sei in una famiglia della Jugoslavia che aveva lo stesso timore che avevi tu, dell'entrata dei carri armati russi e della fine della Primavera di Praga. Probabilmente anche questo è stato uno degli elementi di impatto con un comunismo autoritario, è stato uno degli elementi per cui hai cercato un altro punto di riferimento, come la rottura Russia - Cina, sicuramente sbagliando tragicamente, ma facendo lo stesso errore che la generazione precedente fece con la Russia, nel senso che pensavi che quello era il Socialismo e confondevi le prospettive. Uno degli elementi che ha segnato, credo, l'esperienza dei gruppi extraparlamentari, della sinistra rivoluzionaria, è il tentativo di pensare a un socialismo che avesse caratteristiche di partecipazione non autoritaria, di autogestione e che fosse comunque qualche cosa di diverso.

Al centro, Elia MioniQuello che è accaduto dopo è stato un tentativo di proseguire, su queste strade attraverso una leva “generazionale” che non si è mai ripetuta, dopo. Quello che è accaduto nel '68, nel '69 e negli anni successivi è stato un portato che, fino alle ultime elezioni di qualche settimana fa, ha spinto in avanti una prospettiva in questo Paese, perché quelle persone ci sonoancora. Io credo che il '68 alla lunga sia stato proprio l'applicazione di quel concetto gramsciano della conquista delle casematte della borghesia, perché, alla fine, se pensiamo a cose come psichiatria democratica, medicina democratica, i poliziotti democratici, abbiamo proprio un'esperienza di questo tipo,  cioè quei giovani non sono stati solo i gruppi della sinistra estremista, extraparlamentare o quello che è: c'è sempre stata una relazione e una critica fra le due sinistre, ma c'è stata soprattutto questa capacità di permeare la Società, di costruire punti di vista diversi, anche professionali, che sono continuati anche oltre quegli anni.

Mi viene in mente, l'esperienza di alcuni fisici, penso a Mattioli e Scalìa, per chi li conosce, che passano attraverso i gruppi della sinistra extraparlamentare: la conoscenza scientifica acquisita viene messa a disposizione poi di quel movimento antinucleare che si misurerà nel '74 con il referendum "di Černobyl'", dando una possibile alternativa tecnologica tecnica e scientifica a quella che sembrava l'unica forma di energia che consentiva un futuro di progresso al Paese.

Ecco io credo che il '68 sia anche questo, la possibilità di sedimentare in esperienze politiche nuove, rispetto al passato. Devo dire francamente che per certi versi ho apprezzato la ricostruzione del Professor Borghello, ma se devo rileggerla alla luce degli occhi di quella volta, è stata anche un'esperienza che - pur provenendo io da una famiglia socialista e comunista nel corso del novecento - mi passava “attraverso”: non riuscivo a considerarla come vitale, in quel momento, e  mi ha spinto a fare altre esperienze, che poi hanno lasciato un'eredità nel tempo, eredità che ha continuato ad operare  ad essere viva.

[Liani 0:56:43]

Grazie a Elia Mioni, mi permetto solo di fare di fare un’osservazione, a quei ministri e in particolare a quella ministra che suggerisce di evitare le università agli studenti, mi chiedo perché abbia mentito scrivendo sul foglio matricolare di essere laureata - e laureata non è - se non di “scienze occulte e pirotecnica” probabilmente.

“La lotta è armata: sinistra rivoluzionaria e violenza politica tra il '69 e il '72”, autore è Gabriele Donato qui alla mia destra [⇒ Presentazione del libro]. Secondo Lei la violenza politica è un prodotto inevitabile o un corpo estraneo al 68?

La violenza politica è un prodotto inevitabile o un corpo estraneo al 68?

[Donato 0:57:29]

Beh, la domanda pone immediatamente i termini di un dibattito è che andato avanti per molti anni e dal quale, dal mio punto di vista, noi dovremmo provare a uscire, perché quelle due letture che sono state proposte, con insistenza, sono entrambe, dal mio punto di vista, inadeguate.

Non è affatto vero che la violenza politica abbia rappresentato una conseguenza inevitabile di quel ciclo di contestazioni, non è affatto vero che la violenza politica non c'entrasse alcunché con quel ciclo di contestazioni.

Può essere più complicato ragionare in questi termini e più semplice ragionare in termini dicotomici, però vale la pena provare a farlo, tanto più in una sede come questa, in cui c'è la possibilità di riflettere serenamente, forti di una distanza rispetto a quegli avvenimenti che ci dovrebbe aiutare ad essere cauti nelle nostre valutazioni e nelle nostre riflessioni.

Il tema della violenza rimbalzò nei dibattiti di quegli anni, il mito della “violenza proletaria” circolava nei dibattiti universitari, nelle sedi politiche, arrivava un po' dovunque, ma era appunto un "mito", come tale forte di una capacità evocativa indiscutibile, ma generico, difficilmente identificabile, tant'è che oggi se ci ponessimo il problema di capire effettivamente che cosa identificava quell'etichetta, faremo fatica a trovare delle risposte condivise. Si trattava per l'appunto di un'etichetta evocativa dietro la quale ciascuno collocava quel che riteneva essere coerente con il suo modo di intendere la politica, ma fu un pezzo di quei discorsi che in alcuni casi si tradusse in azione vera e propria, in tanti altri casi si perse. Dobbiamo esserne consapevoli, perché non tutto ciò che viene detto si tramuta in azione, ma è altrettanto vero che le azioni hanno a che fare con le parole evocative che vengono utilizzate.

Anche qua dobbiamo provare ad evitare di farci incastrare da una logica dicotomica e stare in mezzo a questo ragionamento, vedere le ambiguità di quella suggestione, i pericoli che si portò dietro, quella suggestione, senza avere fretta: senza avere fretta, per esempio, di risolvere i termini di questa discussione dicendo che il '68 è stato buono e gli anni '70 sono stati cattivi. Alcuni lo fanno, lo hanno fatto anche recentemente: l'ho letto, questo tipo di ragionamento, in un'intervista recente su un quotidiano locale, sul principale quotidiano locale. C'è stata questa abitudine: ricordo di aver letto un sacco di libri fra l''88 e il '98, pubblicati in quei due anniversari, e questo era un po’ il "leitmotiv" prevalente “Certo il '68 è stata una stagione creativa, esuberante, eccezionalmente anti-autoritaria, poi gli anni '70, gli anni di piombo”, per l'appunto, e già questa etichetta andrebbe messa radicalmente in discussione: sono stati anni veramente che ricordiamo esclusivamente per le pallottole che volavano per aria?

Io non ho aneddoti da raccontare, non ho le carte in regola, evidentemente posso però provare a riferire alcune cifre. Alcuni hanno fatto il conto delle azioni violente nel corso di quegli anni: i tre quarti delle azioni violente di quel lungo decennio sono state messe in pratica in quattro grandi città del Paese, e già questo circoscrive l'impatto che la violenza ebbe nelle vicende degli anni '70. In quattro grandi città: Milano, Torino, Roma e Genova; i tre quarti delle azioni violente. Se poi continuiamo a fare questo conteggio, che ad alcuni potrebbe sembrare un po' macabro, ma che ci aiuta a capire alcune cose, ci rendiamo conto che nell'Europa dell'epoca, il nostro non era affatto il Paese più violento: le vittime della violenza politica che ci sono state in tutti quegli anni nel nostro Paese, nella Gran Bretagna, insanguinata dai conflitti scatenati attorno alla vicenda Nord Irlandese, si sono avuti nel giro di pochi mesi, mesi del 1972, centinaia di vittime solo in quell'anno. E' necessario di conseguenza circoscrivere quel che è stata la violenza politica nel corso di quel decennio, per evitare che tutto quel decennio si trasformi esclusivamente in un palcoscenico per gli attori violenti, che ci sono stati, hanno avuto un'influenza significativa, ma mai maggioritaria, e che non possono continuare ad essere protagonisti di dibattiti su quell'epoca, quasi fossero stati gli unici attori, di quell'epoca.

Facciamo ancora qualche conto: furono milioni coloro che si mobilitarono nel corso di quegli anni, furono centinaia di migliaia coloro che presero parte attiva alle iniziative di protesta, non da semplici simpatizzanti, ma da aderenti a qualche gruppo, a qualche associazione, a qualche organizzazione; furono decine di migliaia i militanti che dedicarono anni interi della propria vita all'impegno, alla contestazione, alla rivolta. I condannati per aver appartenuto a gruppi armati nel corso di quegli anni furono 3000: certo, un numero significativo, ma se rapportato ai numeri che vi ho citato qualche secondo fa, appare nel suo impatto reale, significativo ma minoritario. Quindi pensare di ragionare sul '68 e sugli anni successivi esclusivamente in termini di incubazione di violenza politica è assolutamente irragionevole.  Grazie

[Liani 1:04:03]

Ritorniamo dopo questa panoramica a livello internazionale, ritorniamo nella nostra area, nella nostra regione, per analizzare un aspetto particolare: quello dei P.I.D. se vi ricordate i "Proletari in divisa" che a Udine... (prego... [Cavallo] I PID erano di Lotta Continua, poi.. [Liani] sì, sì sì, sì, ognuno aveva il suo...). Nella nostra regione c'erano 100 mila militari tra leva e di carriera e quindi il movimento si trovò a fare i conti anche con questa presenza. Prego, Ceschia.

L'esercito in Friuli e il movimento del '68 tra i soldati

[Ceschia 1:04:35]

Lotta Continua e stata la prima formazione nella quale ho militato fin dall’origine, nel '69, fino a parte del '71. Credo che sia utile ricordare che a Lotta Continua, in modo particolare, va riconosciuto l'onore di avere aperto un intervento in un settore nevralgico, nel quale la presenza dei giovani, degli studenti e degli operai si misurava, che è quello proprio dell'intervento militari. In una regione come la nostra, in particolare nel Friuli, chi lo ricorda, statisticamente avevamo il 50% di tutte le armi a disposizione dell'Esercito Italiano, concentrate qui, e un terzo numerico di tutti i rappresentanti dell'esercito. Qui venivano, dalle località citate sulla crescita del movimento studentesco, decine di migliaia di ragazzi da tutta Italia: venivano dai licei occupati, dalle università, dalle esperienze del movimento e venivano catapultati in una realtà alienata.

Soldati di leva in libera uscitaChi lo ricorda sa che in quegli anni lì la nostra regione era disseminata di piccole caserme sperdute - mi ricordo Ipplis, mi ricordo Attimis... - situazioni nelle quali lo scontro era immediato fra il sogno di cambiamento, la voglia di impegnarsi è una situazione di costrizione che rubava un anno della propria vita in una situazione del genere.

Se non ricordo male fu del '70 la prima sigla "Proletari in divisa". E' vero, come diceva Giorgio, poi ci sono nomi a seconda della storia delle organizzazioni della nuova sinistra: si chiamavano CPA, nel caso del rapporto con Avanguardia Operaia, CMCM nel caso del rapporto con il Manifesto e il PDUP. Qual era l'importanza formidabile di questo argomento?

Tenete conto che io dal '72 al '74 mi ero occupato dell'attività del Circolo "La Comune" e facevo cose che mi divertivano parecchio - avere portato qui Frank Zappa o i "Napoli centrale" era decisamente più divertente - quando, per una serie di circostanze fortuite, poi dimostratesi infondate, mi viene detto "guarda che il compagno che segue l'attività militare è gravemente ammalato, bisogna che qualcuno segua questa attività". Pensai che fosse il caso di accettare questo tipo di incarico e non sapevo che avrei passato i quattro anni successivi in una situazione decisamente imbarazzante, che mi aveva tagliato fuori dalla vita sociale, e in qualche modo mi obbligava a frequentare, come dire, il neo costituendo Sindacato di Polizia laddove esisteva, e le riunioni con i compagni militari. La qualità delle problematiche che i militari sollevavano era estremamente complessa ed era legata alle condizioni di vita nelle caserme. Tenete conto che, come dire, spesso il lavoro di controinformazione che fu fatto dalle forze della Nuova Sinistra denunciava dei fatti terribili che avvenivano dentro le caserme o durante le esercitazioni. Ricordo i sette morti alpini in Val Venosta, ricordo nella zona nostra durante un'esercitazione con le forze NATO tre ragazzi morirono annegati su un canotto, perché obbligati ad attraversare il fiume in piena, durante un'esercitazione che simulava le condizioni di guerra. C'erano le ruberie, gli avvelenamenti, le situazioni precarie dal punto di vista dell'igiene, che erano legate al modo in cui le tangenti venivano “strappate” alle commesse militari. Ma c'erano altri argomenti molto più delicati in realtà.

La presenza di un terzo dell'esercito significava la presenza di un terzo, in termini di concentrazione, di quella che era la frazione golpista del nostro esercito. Il sottoscritto fu portato in caserma dai carabinieri - se qualcuno ricorda c'era la Legge Reale che consentiva [u fermo di] tre giorni, senza dover dare spiegazioni - perché avevamo distribuito un volantino che accusava Amos Spiazzi di essere uno delle intelligenze più raffinate nell'elaborazione della strategia della tensione.

C'era questo tipo di aspetto e ce n'era un altro che era legato al fatto che la presenza dell'esercito in Friuli Venezia Giulia comportava un problema di "servitù militari" pesantissime che avevano non solamente mortificato l'economia delle nostre realtà ma che, nascondevano una serie di realtà decisamente scomode. Voglio ricordare che ad esempio fu in maniera quasi nascosta che la Base americana di Aviano cominciò ad essere costruita nel '51, nessuno sapeva che razza di lavori facessero; spianavano, e tutti a domandarsi “che razza di problemi...”: solo sei anni dopo nel '57 fu reso ufficiale che era una base americana in territorio italiano. Quando, qualcuno di voi ricorderà, ci fu l'abbattimento dell'U2, il pilota americano che fu abbattuto, come dissero i tracciati, era partito da Aviano e la CIA su Aviano aveva, attribuito un ruolo strategico importante. Aviano fu al centro dell'attenzione, per qualche settimana si parlò di Aviano, nessuno sapeva dove fosse, l'allora Presidente della Repubblica Antonio Segni fece finta di non sapere che nel territorio del Friuli ci fosse una base americana e chiese spiegazioni di fronte a una denuncia presentata dal gruppo parlamentare del PCI, dicendo "devo informarmi perché non mi pare che ci sia", una cosa...

Bene, a questo tipo di impegno a difesa delle condizioni dei nostri ragazzi, dei nostri compagni che venivano in Friuli a passare quell’anno da militare, si abbinò, in maniera robusta, un elemento di critica antimilitarista nei confronti dell'uso che veniva fatto del territorio friulano. E' un problema che è rimasto: noi, la base di Aviano, ce l'abbiamo ancora, non sono molto lontani i tempi nei quali per mesi furono piantate le tende per denunciare, questo tipo di aspetto per rivendicare una vocazione pacifista del nostro Paese, che derivava da un principio fondamentale della Costituzione. Chiudo per ricordare che questa presenza “imbarazzante” - un territorio americano in un territorio che americano non è - avrà delle conseguenze successive: non parlo solamente dell'unabomber e delle voci che attribuiscono la nascita di questo fenomeno alla base americana di Aviano, parlo dell'uso che potrebbe essere fatto di quella base in presenza del conflitto che ci sta coinvolgendo a livello internazionale, una sorta di ripristino abbastanza pericoloso di quello che era  la guerra fredda e la "Cortina di ferro".

[Liani 1:12:11]

Grazie.

Al professore, al professor Borghello una domanda facile facile: quale furono i rapporti tra Movimento studentesco e Partito Comunista.

Rapporti tra Movimento studentesco e Partito Comunista.

[Borghello]

Diciamo che comunemente si legge nei libri, giustamente, che l'atteggiamento del Partito Comunista all'inizio è un po’ di sorpresa: è il primo movimento che in qualche modo esce fuori dall'orbita del partito, fuori, diciamo, dal "controllo". E' un movimento inedito e qui bisogna distinguere anche tra Partito Comunista e Federazione Giovanile, FGCI, diciamo che la FGCI sostanzialmente, con qualche eccezione, colse subito la valenza di questo movimento, e, in qualche modo, seguì questa linea.

Nel PCI c'erano più anime, come vedremo. E' significativo un episodio: Luigi Longo, che era succeduto a Togliatti nel '64 come segretario del Partito Comunista, appena il movimento si mosse chiamò a discutere con lui, alla pari, i dirigenti del Movimento studentesco di Roma, per sentire le loro ragioni, come vedevano le cose, capire cosa si poteva fare; noi abbiamo anche una cronaca molto divertita di Oreste Scalzone che racconta la storia della parte di questi giovani. Dopodiché Longo scrisse il 3 maggio '68 un famoso articolo su Rinascita "Il movimento studentesco nella lotta anticapitalistica": era un punto fermo, cioè significava aver colto che il Movimento studentesco, al di là di qualche dissenso, sfrangiamento, eccetera, però era un punto di riferimento a sinistra per la lotta anticapitalistica, e in questo articolo che è sempre interessante rileggere, facevano autocritica, seria, su come il PCI aveva reagito a questa situazione, i ritardi, le incomprensioni. Diciamo che, per fare un esempio molto concreto, io ricordo benissimo che a Pisa Fabio Mussi e Massimo D'Alema, che erano iscritti al partito e non alla FGCI, svolgevano in modo intelligente e lucido la funzione di "trait d'union" tra il Movimento studentesco, la Federazione e il Partito, cioè era questa, come dire, la linea dominante.

Cito Rinascita che, dobbiamo tenere presente, è veramente un termometro sensibilissimo. Io mi sono letto varie annate della rivista e devo dire che c’era - non solo delle cose che mi interessavano - un approfondimento settimanale che adesso ci scordiamo.

Giorgio Amendola: altra anima. Allora, Giorgio Amendola, già in partenza, nell'ottica del Momento studentesco, era considerato un esponente granitico di quella che si definiva in modo un po' semplificatoriamente la “destra comunista”: tutti si ricordavano nel '66 la famosa contrapposizione al congresso del PCI con Ingrao, due linee completamente diverse. Sempre su Rinascita Amendola fa un articolo diventato famoso o famigerato: "Necessità della lotta sui due fronti" i due fronti erano da una parte il riformismo socialdemocratico, dall'altra le tendenze, diciamo così, anarchicheggianti, dove colpisce anche il titolo "necessità della lotta" cioè come dire non si discute, qua si deve fare la lotta su due fronti, punto e basta, non è che dice "ci poniamo il problema che...". L'articolo esce un mese dopo quello di Longo, e devo dire che, riletto ancora oggi, veramente fa un po' cadere le braccia perché piglia in giro Marcuse, elogia il Partito Comunista Francese, che proprio non era un modello di "sensibilità politica", addirittura arriva a dire che forse è la CIA che tesse i fili dei movimenti extraparlamentari e, per fortuna, a parte, come dire, le polemiche immediate, poi su Rinascita sempre intervennero altri come Achille Occhetto, Lucio Lombardo Radice, Luciana Castellina, Davide Lajolo, Ottavio Cecchi: questo dimostra anche la vera apertura di Rinascita rispetto a un dibattito pluralista.

 Ecco, di tutti questi interventi parlo solo brevemente di quello di Lucio Lombardo Radice, un grande matematico, dirigente politico molto sensibile, uomo di apertura al dialogo con i cristiani, un personaggio veramente autorevole interessato a quello che succedeva nei Paesi dell'Est (ha scritto un libro sulla Primavera di Praga): titolo anche qui eloquente "Se lasciamo spazi vuoti..." puntini puntini. In forma molto garbata di lettera ad Amendola, "se lasciamo spazi vuoti...", dice che se noi lasciamo spazi vuoti, questi vengono malamente riempiti. I problemi sono reali, dice Lombardo Radice, sono il rapporto che deve esistere tra la democrazia partecipativa e la democrazia diretta, sono il rapporto – su questo quella volta si discuteva sempre - fra democrazia e socialismo, e ribadisce l'originalità della via italiana al Socialismo, in polemica molto garbata con Amendola, ma nelle argomentazioni molto robuste.

Questo rapporto, diciamo così, poi, per fortuna, sulla linea di Longo in qualche modo andò avanti, prova ne sia che nel famoso anno 1968, tra parentesi il primo anno in cui ho votato, la parola d'ordine del movimento studentesco era "si vota scheda rossa" ed era chiara l'indicazione del PCI o PSIUP: si vota scheda rossa, beh io ho votato scheda rossa. Grazie

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