⇒ | Home | Sala Dvorana Sale 1 | Sala Dvorana Sale 2 | Sala Dvorana Sale 3 | Parlano di noi 

VENERDÌ, 8 GIUGNO 2018 ORE 16.30
MAGAZZINO DELLE IDEE, CORSO CAVOUR 2

Riflessioni e testimonianze di protagonisti
delle lotte sindacali degli anni 60/70

in Italia, Trieste e nel Friuli Venezia Giulia

Introduce: CARLO GHEZZI, presidente Fondazione Di Vittorio (intervento allegato dopo " Leggi tutto )
Interviene: Michele Piga segretario CGIL di Trieste Coordina: Roberto Treu
Partecipano al dibattito anche delegate/i delle Rappresentanze Sindacali Unitarie e segretari di categoria
⇒ | Home | Sala Dvorana Sale 1 | Sala Dvorana Sale 2 | Sala Dvorana Sale 3 | Parlano di noi 

Di seguito i contributi

{autotoc enabled=yes}

Interessantissima la relazione di Gianni Ghezzi. Il compagno Iermanis, membro del Consiglio di fabbrica dell' Arsenale nel 68, finisce il suo interessante discorso parlando della strage alla Banca dell' Agricoltura, dicendo:ho visto che alla mostra è esposto un articolo del Corriere della sera che parla dell' avvenimento, mi sarebbe piaciuto ci fosse stato l' articolo dell' Unità che quel giorno era uscita con il titolo "L' Italia della Resistenza andrà avanti!! ". Telequattro ha trasmesso al Tg un servizio sul nostro convegno delle 16:30.

 

 

 

 


Contributo di Carlo Ghezzi

“Dalle Commissioni Interne ai Consigli di Fabbrica”

L’Italia è un paese che esce semidistrutto dalla seconda guerra mondiale e che si ricostruisce divenendo, da paese prevalentemente agricolo quale era, uno dei paesi maggiormente industrializzati nel quale, come nei paesi economicamente più avanzati, tende a prevalere il modello di produzione fordista. Grandi lotte nelle campagne a partire dalla occupazione delle terre e sul fronte della riconversione industriale contrassegnano la fine degli anni quaranta.
Negli anni cinquanta l’Italia cresce economicamente e si avvia al “miracolo economico” con un modello produttivo che indubbiamente produce ricchezza ma che si basa sui bassi salari, senza un sistema di sicurezze sociali degno di tal nome, con scarsi diritti nei luoghi di lavoro. Gli anni cinquanta sono contrassegnati dalla repressione antioperaia più dura condotta sotto la cappa di piombo della guerra fredda.

Il nostro modello di sviluppo non gode affatto degli gli alti salari pagati da Henry Ford ai suoi operai, ne tanto meno si adegua al modello sociale europeo avviato nella prima parte del novecento in Scandinavia e realizzato in seguito in Gran Bretagna, in Francia e in Germania che affianca allo sviluppo economico e a retribuzioni dignitose un sistema di protezioni sociali solidali, universali e inclusive: il Welfare state.
Giuseppe Di Vittorio che dirige la Cgil nel dopoguerra intuisce verso quale tipo di sviluppo va il nostro paese, senza diritti e senza tutele, sa che quando al lavoro non è riconosciuta la piena dignità non è il lavoro su cui è fondata la Repubblica come dice il primo articoli della nostra Costituzione, ma è un’altra cosa, e propone sin dal lontano '49 il Piano del lavoro e dal ’52 propone l’approvazione di uno Statuto dei Diritti dei Lavoratori che diventerà legge solamente diciotto anni dopo.

In Italia purtroppo ogni qualvolta le lotte del lavoro diventano incontenibili utilizzando gli strumenti ordinari del confronto democratico, una parte delle classi dirigenti del nostro paese fa saltare le regole della convivenza civile e usa la violenza come strumento corrente della battaglia politica. Così è accaduto con i tanti eccidi proletari che hanno insanguinato tante nostre terre dopo l'unità d'Italia; così è accaduto quando Bava Beccaris ha fatto sparare con il cannone in Piazza Duomo sugli operai milanesi che protestavano per l'aumento del prezzo del pane; così è accaduto con la affermazione violenta del fascismo che ha prolungato la sua dittatura per oltre un ventennio.

L’Italia è l’unico paese dell’Europa moderna dove nel dopoguerra si spara frequentemente durante gli scioperi su operai e braccianti, dove vi sono stragi di inermi a partire da quella di Portella della Ginestra del Primo Maggio del 1947. L’autunno caldo, la più intensa stagione delle lotte del lavoro dell’Italia repubblicana, si chiuderà con la strage di Piazza Fontana.

Lentamente i rapporti di forza tra lavoratori e padronato si vanno modificando nel corso degli anni Sessanta. Si avviano prime esperienze di collaborazione tra Fiom e Fim, in particolare a Brescia e a Milano. Significative sono le battaglie degli elettromeccanici di fine anni cinquanta per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro culminate nella manifestazione tenutasi nella mattina di Natale del 1960 a Milano in Piazza Duomo. In quella fase politica va ricordata la straordinaria riuscita dello sciopero generale contro il governo Tambroni e il suo tentativo reazionario nel luglio 1960. Uno sciopero proclamato dalla sola Cgil dopo i morti di Reggio Emilia e della Sicilia che vede la mobilitazione di vecchie e di nuove generazioni e che chiude la stagione difficile degli anni cinquanta caratterizzate dallo scelbismo e dalla interminabile crisi del centrismo ed avvia la stagione del centrosinistra.

La CGIL in quegli anni promuove la contrattazione in azienda e l’organizzazione del sindacato nei luoghi di lavoro con la costituzione delle SAS, le sezioni aziendali sindacali elette dagli iscritti al sindacato, una struttura che rappresenta uno strumento decisivo per contribuire a ricostruire l’unità sindacale dal basso ma soprattutto che sa cogliere le trasformazioni che avvengono in fabbrica, che sa promuovere battaglie, oltre che per contrattare il salario attraverso il miglioramento di premi aziendali, come proponeva la Cisl, ma sopra tutto per contrattare l'organizzazione del lavoro (organici, cottimi, ritmi, carichi, qualifiche, uso dello straordinario, assunzione dei lavoratori precari a contratto a termine, parità uomo donna, salute in fabbrica e ambiente di lavoro).
Contemporaneamente vengono individuati nuovi terreni di iniziativa sindacale prettamente confederale legando insieme le iniziative condotte dalle categoria con le battaglie generali di tutto il mondo del lavoro; vengono posti il tema della riforma delle pensioni, il superamento della gabbie salariali e il problema della casa.

Sulle pensioni il confronto tra i sindacati e Governo traeva origine da un antico contenzioso circa le rilevanti ingiustizie che si manifestavano in un sistema previdenziale che si trascinavano disorganico e claudicante da decenni, addirittura dalla caduta del fascismo che non aveva certo lasciato al paese un sistema previdenziale moderno, efficace ed equo. La conseguenza più evidente era quella di garantire pensioni molto basse a chi aveva lavorato per lunghi anni o addirittura di negare la corresponsione di una pensione a molti anziani che, pur con esperienze lavorative limitate o non regolarizzate, non percepivano alcunché. I sindacati avevano presentato al Governo nel corso degli anni diverse piattaforme, dapprima separate poi unitarie, per confronti che si protraevano e languivano nel tempo senza risultati concreti finché viene indetto da Cgil, Cisl, Uil uno sciopero generale per il 15 dicembre 1967 per ottenere appunto la riforma delle pensioni.

La proclamazione dello sciopero rientra dopo che il Governo di centro-sinistra, guidato da Aldo Moro, da segnali di disponibilità per una reale apertura a un confronto di merito che permette di giungere a una ipotesi d’accordo che prefigura un primo interessante aspetto di riforma del sistema previdenziale ma che contiene anche alcune scelte dolorose e impopolari poiché raffredda l’erogazione delle pensioni di anzianità, prevede l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne da 55 a 60 anni e abolisce il cumulo salari-pensione.
Appena le notizie sull’intesa raggiunta si diffondono attraverso i giornali, la radio e la televisione una forte protesta esplode tra i lavoratori delle aziende del triangolo industriale e coinvolge progressivamente gli operai e gli impiegati di molte altre città. La sede della Cgil nazionale viene subissata da telegrammi e da comunicati di protesta.

L’accordo è contestato dalla gran parte della base della Cgil, ma anche da settori della Fim-Cisl. Novella, dopo una inusuale consultazione delle strutture sindacali, decide di non sottoscrivere l’accordo e rilancia la vertenza con lo sciopero generale proclamato dalla sola Cgil per il 7 marzo 1968. Lo sciopero riesce molto bene, va oltre ogni aspettativa sia di chi lo ha sostenuto sia di chi lo ha avversato e apre un varco a trattative col governo e all’accordo unitario sul riordino del sistema previdenziale che è raggiunto dopo qualche stagione.
La lunga e paziente tessitura di una attività rivendicativa che percorre gli anni sessanta sfocia così alla fine del decennio in un movimento impetuoso, innovativo e coinvolgente che segna la storia d’Italia e del suo Movimento Operaio.

Qualche mese prima del famoso maggio francese che tuttavia si esaurisce in quel Paese molto rapidamente, si apre in Italia il secondo biennio rosso. Emblematicamente comincia in una zona politicamente moderata, a Valdagno dove alla Marzotto, dopo 143 le ore di lotta contro l’intensificazione dei ritmi di lavoro e per il mantenimento dei livelli occupazionali, il 18 aprile di quell'anno prendono corpo scontri tra operai tessili e la polizia che si concludono con un bilancio pesante: 300 fermi e 42 arresti. Mentre continuano i tafferugli un gruppo di operai lega con una corda la statua in bronzo di Gaetano Marzotto che troneggia nella piazza principale della cittadina e la abbatte con fragore. Quel gesto per molti giovani operai segna la fine della subalternità culturale alle regole del padrone.

Le radici di quello straordinario biennio sono profonde e variegate. Traggono innanzitutto alimento dalle condizioni di lavoro e di reddito che vedevano le forze del lavoro in Italia relegate in posizioni di retroguardia in Europa, ma anche dalla struttura classista e chiusa di una scuola che era divenuta di massa, dalle novità e dai fermenti emersi dal Concilio Vaticano Secondo, da un diffuso sentimento antiautoritario che anima in particolare le giovani generazioni e che si concretizza in imponenti movimenti di studenti che si sviluppano in moltissimi paesi. Ciò che unisce le contestazioni è l’intervento americano in Vietnam, la violenza cieca delle bombe dei B-52 contro la piccola nazione del sud-est asiatico, ma anche il sistema di relazioni sociali, il principio di autorità, la ribellione alla famiglia borghese, i rapporti tra donne e uomini.

Nel 1968 l’Italia è attraversata dalle tensioni delle lotte studentesche e operaie. Fa rumore a Milano, nel marzo di quell’anno, l’occupazione dell’Università Cattolica, una delle roccaforti del cattolicesimo italiano. Poi giunge l’eco del Maggio francese e della spinta antiautoritaria in sintonia con le analoghe mobilitazioni in Germania, negli Stati Uniti, in altri paesi del mondo. L’Italietta chiusa e bigotta, che negli anni sessanta pur aveva cominciato faticosamente ad aprirsi, appare scossa.

Questo e altro si mescolano a tante tensioni che ribollono nel profondo della nostra società, alla volontà di riscatto e alle speranze di progresso portate avanti da giovani generazioni che non avevano conosciuto la guerra, dai protagonisti di bibliche migrazioni di massa che avevano lasciato il Mezzogiorno d’Italia dopo aver partecipato alla occupazione delle terre e alle lotte per la riforma agraria e che giunti al Nord si erano mescolate in fabbrica con i lavoratori già sindacalizzati e che si erano trovati così a lavorare quotidianamente gomito a gomito e a condividere una condizione lavorativa abbastanza omogenea con gli attivisti che avevano vissuto la Resistenza, gli anni difficili delle divisioni fra i sindacati. E tutti insieme pongono domande nuove anche su cosa produrre, come e per chi. E in fabbrica sono arrivate tante donne che divengono protagoniste nelle lotte nel lavoro a partire dagli orari e dai salari in fabbrica e per nuovi diritti, nuove protezioni sociali nella società, che favoriscono nuove esperienze contrattuali in azienda come nel territorio.

La politica si rivela chiusa e arroccata rispetti a questi sommovimenti.

Incertezze e chiusure si manifestarono inizialmente anche dentro la Cgil che tuttavia sa dialogare, sa farsi carico delle principali istanze che esprimono i lavoratori e tanti giovani. La scelta di aprirsi al nuovo impone un forte rinnovamento del sindacato, della sua cultura, delle sue politiche rivendicative e sociali, della sue forme di democrazia interna.

Si costituiscono nuove strutture di rappresentanza in azienda: i Consigli di Fabbrica. La modifica più significativa del modo di essere e di operare del sindacato è rappresentata proprio dal passaggio dalle Commissioni Interne ai Consigli di Fabbrica quali strutture di rappresentanza e di contrattazione del sindacato in azienda.

Nel '68 a Milano alla Pirelli Bicocca viene organizzata la prima elezione del primo Consiglio dei delegati, eletto su scheda bianca, che coinvolge tutti i lavoratori. Tutti elettori e tutti eleggibili. Qualche mese ancora e tale organismo è riconosciuto in un accordo aziendale.

I lavoratori della Pirelli si battono in quelle stagioni per l’aumento del premio di produzione, per modificare l’organizzazione del lavoro, ridurre i ritmi e i carichi, migliorare le tabelle di cottimo, abolire il sabato notte lavorativo, sorvegliare gli orari di lavoro di fatto, per un ambiente più salubre, per la scheda sanitaria e il libretto personale di rischio, per una maggior agibilità dell’attività sindacale. Con uno slogan di straordinaria civiltà "la salute non si vende" si comincia a rivendicare la istituzione di servizi di medicina per l'ambiente di lavoro. Obiettivi che sono sostanzialmente conquistati uno dopo l’altro, vertenza dopo vertenza e che si propagano in altre grandi aziende.

La sera del 28 aprile 1969 trascinano all’interno della Pirelli dei sindacalisti della Cgil e della Uil li portano alla mensa gremita di lavoratori dove si tiene la prima assemblea alla presenza di dirigenti sindacali esterni.

I sindacalisti sono denunciati dalla direzione per violazione di domicilio ma le assemblee in Pirelli proseguono e il diritto a riunirsi è sancito pochi mesi più tardi da un accordo aziendale. Lo stesso schema verrà ripetuto in numerose altre grandi fabbriche italiane e alcuni diritti fondamentali entreranno a far parte delle clausole dei principali rinnovi contrattuali dell’autunno del 1969 per essere poi assunti codificati ed estesi a tutto con lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori che diverrà legge dello Stato il 20 maggio 1970. Lo Statuto riconosce le Rappresentanze Sindacali Aziendali come struttura sindacale di rappresentanza e di contrattazione che sostituiscono per un brevissimo periodo le Commissioni Interne, che avevano solo funzioni di controllo sulla applicazione di leggi ed accordi sindacali in azienda ma che non avevano alcun potere contrattuale. Le funzioni delle RSA sono rapidamente consegnate ai nascenti Consigli di Fabbrica che, in forma variegate e mai definitivamente codificate, hanno una diffusione notevole nell’industria ma anche in alcuni settori del terziario.

I Consigli sono composti da un numero di componenti vasto rispetto a quello estremamente ristretto dei componenti delle vecchie Commissioni Interne e i nuovi rappresentanti dei lavoratori si contrappongono capillarmente alla struttura aziendale dei capi e dei capetti nella contrattazione della organizzazione del lavoro.

La spinta al cambiamento spazza via divisioni e incrostazioni del passato, innesca nei lavoratori la volontà di partecipare, di costruire l’unità. Le parole d’ordine “durare un minuto più del padrone”, “uniti si vince”, “la salute non si vende” danno voce alla determinazione di controllare e migliorare l’organizzazione del lavoro, conquistare livelli salariali europei, rendere più salubre l’ambiente, ottenere sistemi di protezione sociale solidi. Si avvia un ampio rinnovamento dei gruppi dirigenti sindacali, soprattutto nei luoghi di lavoro. Vengono coinvolti i giovani che portano nel sindacato una nuova linfa e una militanza appassionata che avrebbe prodotto molti frutti negli anni a venire.

Il sindacato è indubbiamente uscito da quegli anni profondamente mutato rispetto a come vi era entrato. Ha saputo cogliere molte delle istanze che sono emerse da quella convulsa fase storica perché ha saputo misurarsi, non senza scontri e pesanti resistenze interne, alle novità e alla voglia di partecipare che tanta parte della società esprimeva in forme nuove. Il sindacato, a differenza di molte altre realtà politiche e sociali, ha avuto la lungimiranza di comprendere molte delle novità che sono emerse in quel periodo e di integrarne le potenzialità nell'organizzazione. Mentre emergono con evidenza in quegli anni le difficoltà della politica italiana ad offrire orizzonti e sbocchi adeguati alle energie nuove e alle istanze di cambiamento che da quella fase vengono alla luce. Si arriva così a quel 1969 che da il via ad una stagione intensa di battaglie del lavoro, sociali, culturali, civili e democratiche destinata a durare a lungo. Nel biennio 1968-1969 i lavoratori si scrollano di dosso incertezze, antiche soggezioni. Sono sopratutto le grandi aziende che si mobilitano. Anche da Torino giungono notizie della ripresa delle lotte in corso alla Fiat sin dalla primavera del 1969. E' una stagione nella quale i lavoratori e i sindacati impongono il tema del lavoro al centro dell’agenda politica del paese.

Nell’autunno del 1969 scadono i contratti nazionali di lavoro dei metalmeccanici e dei chimici. Durante la preparazione delle piattaforme prevale la richiesta di un aumento uguale per tutti anziché i consueti aumenti differenziati legati alla qualifica. Settori della Fiom-Cgil, a partire dal suo segretario generale Bruno Trentin, si oppongono a tale novità. A Milano, nel referendum indetto su opzioni contrapposte, alla Sit Siemens come all’Alfa Romeo e nella maggioranza delle aziende metalmeccaniche stravince la proposta di pari incrementi salariali. Allo stesso modo va a Torino. Viceversa a Sesto San Giovanni i 50 mila occupanti delle fabbriche si schierano l’84 per cento dei voti a favore di aumenti per qualifica. Nell’autunno caldo, nonostante gli scioperi e i cortei, i contratti delle maggiori categorie industriali non si sbloccano. Fiom, Fim e Uilm organizzano una manifestazione in piazza del Popolo a Roma. E' la prima con quel carattere. Lavoratori in viaggio da un capo e l’altro del paese invadono la capitale. I comizi di Bruno Trentin, Luigi Macario e Giorgio Benvenuto, i tre segretari dei metalmeccanici, sono ascoltati da una folla di centomila persone.

Alla fine di un estenuante braccio di ferro il 9 dicembre 1969 viene firmato il contratto delle aziende metalmeccaniche pubbliche. Quattro giorni più tardi i chimici firmano il loro contratto in una data drammaticamente incisa nella storia di questo paese: è il 12 dicembre 1969 il giorno della strage. Da quel dramma parte, con lo sciopero generale proclamato dai tre sindacati confederali in occasione dei funerali delle vittime, la risposta di massa al terrorismo nero e poi a quello brigatista. Una dura battaglia che ha sempre visto il sindacato unitario alla testa guidando un ampio schieramento di forze politiche, sociali e culturali; una dura battaglia che la democrazia italiana alla fine ha saputo vincere. Ma quante energie sono state doverosamente spese per difendere la democrazia e la convivenza civile e che purtroppo sono state sottrarre ad iniziative per poter cambiare in meglio i luoghi di lavoro e il paese.
Quel sindacato oggi accusato di essere vecchio e inutile, che cerca di mettere il gettone nell'iPhone è stato decisivo nel non fare precipitare l'Italia e la sua democrazia nella deriva nella quale il terrorismo ha coinvolto altri paesi come la Grecia, l'Argentina o il Cile.

In quella fase storica Luciano Lama, insieme a Bruno Trentin, è in prima fila nel sostenere il processo di unità sindacale e, respingendo l’esplicita opposizione di settori decisivi del PCI, è stato in prima fila nel sostenere la funzione e il ruolo dei Consigli dei delegati di Fabbrica quali strutture di base del sindacato nel corso di più discussioni che coinvolgono la direzione del suo partito. Il confronto si sviluppa attraverso uno scontro politico molto aspro che vede il grosso del gruppo dirigente di quel partito decisamente preoccupato rispetto a tale scelta che viene palesemente contrastata con particolare energia da dirigenti del peso di Agostino Novella, di Rinaldo Scheda e di Giorgio Amendola.

Dopo un lungo travaglio a nome della segreteria del partito e di fronte ad un Enrico Berlinguer ostentatamente silente, a conclusione di una specifica riunione della direzione del PCI convocata su quel tema, Ferdinando Di Giulio il responsabile della sezione Lavoro di massa, suggerisce di non assumere nessuna posizione formale né pro né contro alla promozione dei Consigli dei delegati quali strumento di rappresentanza e di contrattazione nei luoghi di lavoro trattandosi di un affare interno al sindacato.
In tal modo Lama e Trentin conseguono un sostanziale via libera dal loro partito e il comitato direttivo della Cgil, al termine dell’autunno del 1970, fa propria solennemente tale scelta votandola all’unanimità. Nel percorso che avrebbe dovuto portare alla nascita di un sindacato unitario definita a Firenze nei primi anni settanta, Cgil, Cisl e Uil definiscono il Consiglio dei Delegati la struttura di base del sindacato unitario con compiti di rappresentanza e di contrattazione. Tale dizione viene ripresa nel patto che da vita alla Federazione Cgil, Cisl, Uil.

L’autunno caldo non è dunque un fiore sbocciato improvvisamente dal nulla. Senza la lunga e lenta maturazione della riscossa operaia del decennio che lo ha preceduto, senza la tenace iniziativa di contrattazione in azienda, senza la costruzione di rapporti di unità d’azione tra lavoratori di diverse culture e storie e tra diversi sindacati non si sarebbe sviluppato quel grandioso movimento di lotta, non sarebbero maturate le condizioni per l’incontro fruttuoso, ma tutt’altro che facile, tra lavoratori e studenti.

Non si sarebbero gettati quei semi che hanno cambiato nel profondo la società italiana portandola a tante conquiste civili (dalla legge sul divorzio e sull’aborto come a tanti altri avanzamenti conseguiti negli anni successivi), non si sarebbe avviato un così intenso ciclo di iniziative e di lotte che pur tra alti e bassi sarebbe durato molto a lungo, fino alla sconfitta subita dalla Flm alla Fiat nel 1980.
Ma quella lotta dei lavoratori del 1969 aveva infranto il vecchio equilibrio e resa ineludibile una riforma nei diversi campi della vita nazionale: un riposizionamento innovativo del tessuto produttivo, una nuova capacità di direzione del sistema politico, il pieno riconoscimento dei diritti sociali sanciti dalla Costituzione.

Tutto ciò richiedeva un salto di qualità nel modello di sviluppo, nell’organizzazione sociale e nella vita politica che sono state solo in parte raccolte nei decenni successivi. Il riformismo sociale promosso dal sindacato confederale in una Italia politicamente bloccata con l’autunno caldo ha posto al paese temi innovativi e unificanti come le riforme sociali riguardante il fisco, la sanità, i trasporti, la casa. Ha saputo collegare rivendicazioni sindacali e riforme sociali nelle proprie piattaforme.

Il 1968, e a maggior ragione il 1969, hanno profondamente inciso sul costume, la cultura di massa, la qualità dei processi partecipativi e democratici; i rapporti di distribuzione del reddito tra diversi ceti sociali sono usciti da quella contrastata stagione no-tevolmente modificati anche se non si sono mantenuti tali nei decenni successivi. Sono state quelle delle stagioni ricche di enormi energie, di straordinarie potenzialità, di sviluppo della partecipazione e della democrazia ma anche di contraddizioni non risolte che si sarebbero riproposte negli anni successivi. Ma alcuni tratti della società italiana sono stati cambiati in modo irreversibile dopo quanto è accaduto in quel periodo e il biennio 1968-69 ha avuto in Italia significato notevole, molto maggiore rispetto a quanto avvenuto negli altri paesi europei; non dimentichiamo che in Francia quel sommovimento è durato solo un mese.

Vale proprio la pena, in un paese che ha la memoria troppo corta e troppo volatile, studiare e analizzare a fondo quanto è successo in quegli anni e riproporli sia a chi li ha vissuti che alle attuali generazioni


Contributo di Franco Schenkel

Care/i tutte/i,Venerdì 8 (domani) non potrò essere a Trieste perchè arrivano a Venezia i quadri di Ivano e deve iniziare l'allestimento della mostra.
Mi dispiace, perchè mi interesserebbe sentire il punto di vista attuale della CGIL sul passaggio dalle Commissioni Interne ai Consigli di Fabbrica e, poi, alle RSU.
Magari con una analisi "territoriale", per singole province e per realtà lavorative, industriali e non.
La mia esperienza, dal 1974 al 1980 con i chimici, la FULC e la Federchimici CISL, di Pordenone, è stata importante e in diretta continuità con il movimento all'Università di Trieste.
I Consigli di Fabbrica e l'unità sindacale erano alla base dell'impegno nell'organizzazione delle lotte dei lavoratori; quando il ruolo dei Consigli è stato ridotto assieme allo sgretolamento dell'unità sindacale "organica" (come si diceva all'epoca) mi sono ritirato dal lavoro sindacale e ho cominciato l'avventura con la Cooprogetti, prima cooperativa di progettazione del triveneto. 
Mi auguro di avere occasione di riprendere il discorso con Quelli del 68, in pubblico o in "privato".
Un saluto a tutte/i
Franco

Contributo di Roberto Ferri

Allego, come contributo al dibattito di venerdì 8 giugno, la posizione della FIOM rispetto al Movimento studentesco espressa alla Conferenza sulla democrazia sindacale (Sesto S. Giovanni - 13-15 dicembre 1968) tratta da "Lotta di classe e democrazia operaia. I metalmeccanici e i consigli di fabbrica", Quaderni di Sindacato Moderno n.5 edito dall'ufficio stampa della FIOM agli inizi degli anni '70.
Iniziativa8 giugno2018.pdf (363 kB)
1968_FIOM_ConvegnoDemocraziaSindacale.pdf (0 kB)
Mostra20180606_Ghezzi.pdf (414 kB) Dalle Commissioni Interne ai Consigli di Fabbrica