Per ragioni anagrafiche il mio ‘68 cominciò tardi e lentamente, all’università dopo il liceo. Fu un’esperienza irripetibile e indimenticabile che ha segnato e avuto conseguenze profonde e durevoli per la mia vita seguente:  non sarei quello che sono senza quei due anni e mezzo triestini.

               Per farvi un’idea dovete immaginare un lànfur (termine ironico-spregiativo allora ancora in voga a Trieste), un brufoloso ragazzotto del contado friulano (Udine allora gli sembrava e probabilmente era un luogo periferico e provinciale, però lui aveva avuto allo Stellini un professore di filosofia: Gian Giacomo Menon, che l’aveva ‘contagiato’ trasmettendogli la libido sciendi facendogli intravedere altri mondi e così aprendogli la mente e lo sguardo), un pandòlo «con il cuore di simboli pieno» e la testa altrettanto zeppa di confuse velleità (nonché di pregiudizi nei confronti dei cuginastri triestini) il quale dopo la maturità classica nel luglio ’68 approdò alla facoltà di Filosofia in Città Vecchia.

Uno che per molti mesi, soltanto per partito preso e per un infondato pregiudizio e un’immotivata diffidenza anti triestini, invece di mescolarsi con gli ‘indigeni’ se ne andava solo soletto a mangiare un panino sul molo Audace (se c’era il sole) o in qualche bettola di seconda mano (se pioveva o tirava la bora). Sempre da solo. E che poi senza indugi prendeva il treno e tornava nella rassicurante ‘tana’ friulana tra i suoi pochi ma consolidati e fidati amici del liceo. Se continuava così, per lui dal punto di vista esistenziale sarebbe stato un disastro.

               E invece... E invece il furlàn comincia ad aòzare la mano e a prendere la parola nelle assemblee di Lettere, si fa notare, piano piano intreccia rapporti e legami, partecipa e fa gruppo, smette di starsene da solo, impara a gestirsi la vita, lo studio, le giornate e le notti, e piano piano comincia a preferire di starsene sempre più a lungo in partibus infidelium mescolandosi ai vituperati triestini invece che tornare in Friuli. Evento tuttora considerato da lui importante e decisivo per la sua maturazione, venne perfino imbroccato da una più ‘vecchia’ ed esperta di lui, una delle ragazze più belle e ambite della città, e toccò proprio a lui così imbranato e immaturo negli esercizi dell’amore (per non parlare del sesso), che non avrebbe mai avuto il coraggio di fare il primo passo né saputo come farlo. Ancora non se ne capacita.

               La trasformazione da pendolare a stanziale avvenne anche grazie al posto ottenuto per merito alla casa dello studente: all’epoca fungeva da studentato l’hotel Milano di via Ghega e fu in una delle sue sontuose camere moquettate che la sera del 12 dicembre 1969 stordito, sbigottito e smarrito ascoltò alla radio la notizia della strage di piazza Fontana.

Entra anche a  far parte – alla pari e a pieno titolo sempre però appellato ironicamente ma affettuosamente lànfur - di uno straordinario gruppo di compagni (presto diventano  anche amici) che ruota intorno al fortino di via Madonnina dove aveva sede la Federazione provinciale del Pci: Mauro, Ugo, Piero (che tenerezza che provo quando ripenso a quella stanza in casa sua tutta dedicata a un trenino elettrico con tanto di case, stazioni, strade, passaggi a livello e colline…), Fulvietto, Fabio, Giorgio, Stojan, Giuliana, Giuditta (con quest’ultima, il suo moroso di allora e una loro amica slovena dai capelli rossi farà la sua prima vacanza-viaggio al mare in tenda accampato in quel paradiso terrestre che era allora il Parco dell’Uccellina in Maremma che vedeva per la prima volta in vita sua)…  

               Con l’affettuosa guida di quei ‘padri’ politici che a Trieste furono per lui (e probabilmente anche per gli altri) Antonino Cuffaro e Paolo Sema, quel gruppo darà vita  nel ’70 alla prima sezione universitaria del Pci. In occasione della sua costituzione si riuscì a far venire a Trieste a tenere conferenze pubbliche dirigenti del calibro di Sergio Garavini, Giuseppe Chiarante, Giovanni Berlinguer e altri. Conferenze dopo le quali, con o senza l’ospite illustre, il gruppo finiva regolarmente da Stelio a  mangiare ćevapčići e ražnjići  con vino terrano o, quando potevano fare gli splendidi, la granseola il cui guscio veniva ritualmente sciacquato con l’aspro bianchetto della casa per bere anche i fruzzòns della polpa.

               Fu in quel turbinoso contesto di fervore e impegno politico che il furlàn ebbe l’onore e l’onere di tenere il suo primo comizio pubblico. Venne spedito, un sabato pomeriggio, nientemeno che nell’affollatissima via XX Settembre, all’epoca luogo tabù per i rossi in quanto notoriamente presidiata dai fascisti. A sua protezione ebbe però una scorta d’eccezione: Libero Tribuson e i suoi compagni portuali che, mimetizzati tra la folla variopinta ed elegante della strada, vigilarono con discrezione affinché i neri non lo assalissero e gliele suonassero! Poi di quell’emozionante pomeriggio il nostro ne venne a sapere un’altra: il ‘terribile’ Vittorio Vidali, il leggendario comandante Carlos del Quinto Regimiento, si fece accompagnare in loco dalla Gabriella Gherbez  perché voleva verificare di persona come si comportava quel furlàn di cui tanto gli avevano parlato in Federazione.

               Il ragazzo friulano in quei due anni  triestini imparò molte cose (che poi gli sono servite molto nella vita): come si parla in pubblico, come si gestisce un corteo o un’affollata e tumultuosa assemblea ma anche come ci si destreggia in ristrette riunioni operative; imparò a inventare slogan e a scrivere documenti politici; imparò come si fanno le ronde notturne antifasciste nonché i turni di vigilanza in una sede di partito; imparò a fare le ore piccole assaporando il piacere delle interminabili e il più delle volte inconcludenti conversazioni notturne con gli amici triestini girovagando per strade e osterie o restandosene chiusi in stanze disordinate o case piene di fumo delle quali ha ormai perso l’ubicazione topografica ma non il ricordo (invece per quel che riguarda il bere – molto, anche se non sempre bene - aveva già conseguito …master e dottorato magna cum laude a Udine insieme agli amici del liceo). E dopo averlo fatto a Udine nell’agenzia Einaudi di Giulio D’Andrea, aprì anche a Trieste un conto libri da Ondina e Gian Luigi che curavano la distribuzione e la vendita in zona degli Editori Riuniti e di altri editori di sinistra.

               Curiosamente, a differenza dell’andazzo (che sembrava) generale e in controtendenza rispetto a quanto avveniva intorno a lui, fece pochissimo esercizio nelle questioni sentimentali o di sesso imparando quindi poco o niente. Ma fu un problema tutto suo. Naturalmente gli capitò di innamorarsi venendo all’inizio anche ricambiato, ma durò sempre poco: il combinato disposto di immaturità, goffaggine e inesperienza in quel periodo gli fu ogni volta fatale (ancora oggi, dopo 50 anni, c’è chi gli ricorda che scriveva belle poesie, ma lui ci ha messo molto a rendersi conto di quello che si è sempre saputo e cioè che carmina non dant panem, figuriamoci poi se ti facilitano le… conoscenze bibliche). Furono quindi soltanto baci con l’inevitabile, frustrante contorno di stropicciamenti e brancicamenti vari, ma niente di veramente significativo e conclusivo se capite quel che ciò vuol dire. Insomma, per farla breve in quei due anni e mezzo scopò poco, anzi punto e tenne a bada la tempesta ormonale in altro modo.

               Nel suo gruppo non girò mai droga o perlomeno lui non ne venne a conoscenza né a contatto.

               La sua formazione e maturazione proseguì negli anni seguenti (1971-1974) a Udine come ‘professionista’ della politica (Fgci, Pci, Lega per le autonomie locali, consiglio di amministrazione dell’Atm). Ma questo capitolo della sua vita è un’altra storia. Vita che senza l’esperienza di quegli anni triestini, ne è ancora oggi convinto, sarebbe stata probabilmente diversa. Molto diversa.

Segue su: CV - Cesare Sartori - Il mio ’68: ... e quelli friulani