Quando si cresce si perde l’innocenza, d’accordo,
lo sanno tutti, ma era indispensabile perdere anche la speranza?

Articolo precedente: CV - Cesare Sartori - Il mio ’68: gli anni triestini…

           Il mio ’68? Cominciò quasi in sordina dopo l’estate dell’anno seguente, ma per me dispiegò a pieno i suoi benefici effetti soltanto nei quattro anni successivi. Il 1968, infatti, in senso stretto, fu per me soprattutto un anno di cose che finivano, di inizi e di appuntamenti mancati con la… Storia: fine del liceo classico (lo Stellini, sezione A); la morte ravvicinata dei nonni paterni;  in agosto l’andata a monte del viaggio di ‘matura’ a Praga che avevamo in programma noi quattro legatissimi amici e compagni di classe: Giancarlo, Giuliano, Mario e il sottoscritto.

Non si fosse messa di traverso l’ottusa carognata del prof di matematica che condannò agli esami di riparazione di settembre uno del gruppo, saremmo stati spettatori dell’ingresso dei carri armati sovietici in piazza san Venceslao. Per solidarietà con il malcapitato, gli altri tre rinunciarono a partire. Lettore onnivoro e vorace, tra le decine di autori e titoli scoperti e ‘divorati’ in quell’anno, due furono per me (e, nel ricordo, continuano ad essere) i libri fondativi e archetipi del mio ‘68: Cent’anni di solitudine e Herzog. Scrivevo poesie, avevo deciso di fare Filosofia ed ero parecchio in difficoltà per un amore bello e stimolante (furono i miei primi veri baci, «le labbra di lei, asciutte e levigate e tiepide di sole, premute sulle sue; erano i baci con i quali sarebbero stati confrontati tutti gli altri della sua vita per risultare puntualmente inferiori»), ma così impegnativo che perfino un imbranato quale ero io allora si rendeva conto che non sarebbe riuscito a farlo durare. E poi quell’anno ci fu il primo vero impatto diretto non soltanto con il mondo universitario, ma soprattutto con quella Trieste e con quei ‘cuginastri’ triestini verso i quali nutrivo una cautela e una diffidenza nutrite e avvelenate da atavici quanto ingiustificati pregiudizi di campanile. 

               Insomma, tecnicamente il mio fu un ’68 senza cortei, manifestazioni, occupazioni, attività politica, contestazione, barricate… L’unico contatto con l’ambiente e il clima della Grande Contestazione fu la partecipazione a parecchie riunioni di un Cub (Comitato unitario di base), antenato di Lotta continua, che si riuniva in un ‘antro’ gelido e desolato in Borgo San Lazzaro (per poi concludere il tutto con una bevuta nel leggendario bar «da Cita»). La delusione e insoddisfazione per quell’esperienza (e per la doppiezza di certi personaggi che ne facevano parte) mi convinse ben presto ad avvicinarmi al Pci. Mi confermò in questa scelta un grave episodio accaduto durante una manifestazione studentesca alla stazione delle corriere: durante uno dei numerosi tafferugli, un commissario di Ps venne colpito con un bastone da uno dei capi udinesi della neonata Lotta continua, ma nella confusione fu fermato un giovane che non c’entrava niente con l’episodio. L’incolpevole (fratello di una mia compagna di liceo) venne arrestato e si fece alcuni giorni a via Spalato, ma il vero responsabile se ne stette zitto e lasciò che un altro pagasse al suo posto. Ignobile (l’individuo era lo stesso che quando la mattina all’alba andavamo con i compagni del sindacato Cgil a fare il giro dei cantieri per tirare giù i muratori dalle impalcature e convincerli a fare sciopero, se ne stava a dormire al calduccio nella sua bella casa di via Liruti).

               Per un intero anno accademico, sempre a causa dei citati pregiudizi, feci parte per me stesso o con i miei conterranei friulani, evitando per quanto possibile contatti approfonditi con la città di Svevo e i suoi abitanti.  Finiti lezioni o seminari, correvo in stazione e saltavo sul primo treno per rifugiarmi nella mia Udine; se costretto dagli orari a pranzare a Trieste, me la cavavo con un panino sbocconcellato in orgogliosa solitudine sul molo Audace (con il sole) o in qualche bettola in Cavana (con la pioggia).

               Le cose cambiarono radicalmente quando, l’anno accademico successivo, ottenni per merito un posto alla Casa dello Studente (hotel Milano, in via Ghega: fu in una delle sue sontuose camere moquettate che la sera del 12 dicembre 1969, sbigottito e smarrito, ascoltai alla radio la notizia della strage di piazza Fontana). Cominciai a prendere la parola nelle assemblee di Lettere e piano piano a intrecciare rapporti e legami d’amicizia, partecipai a iniziative collettive, feci nottolate andando per osterie, smisi insomma di starmene da solo o di rifugiarmi nella sicura tana friulana; figlio di mamma, imparai anche a gestirmi in autonomia la vita quotidiana e lo studio (mio padre fu costretto un paio di volte a venirmi a cercare a Trieste perché stavo settimane senza dare a casa segni di vita).

               Entrai anche a  far parte di uno straordinario gruppo di compagni-amici che ruotava intorno al fortino di via Madonnina sede della Federazione provinciale del Pci: Mauro, Ugo, Piero, Fulvietto, Fabio, Giorgio, Stojan, Giuliana, Giuditta (con quest’ultima, il suo moroso di allora e una loro amica slovena dai capelli rossi feci la mia prima vacanza-viaggio al mare in tenda – nel Parco dell’Uccellina in Maremma -, con finale disastroso).  Insieme demmo vita nel ’70 alla sezione universitaria del Pci. E fu in quel turbinoso contesto di fervore e impegno politico che ebbi l’onore e l’onere di tenere il mio primo comizio pubblico, un sabato pomeriggio, nientemeno che nell’affollatissima via XX Settembre, all’epoca luogo tabù per i rossi in quanto notoriamente presidiata dai fascisti. Mi proteggeva, mimetizzata tra la folla, una squadra di compagni portuali; ebbi anche un uditore d’eccezione: il ‘terribile’ Vittorio Vidali, il leggendario comandante Carlos del Quinto Regimiento, che volle verificare di persona come si comportava quel furlàn di cui tanto gli avevano parlato in Federazione.

               Il ragazzo friulano in quei due anni  triestini imparò molte cose (che poi gli sono servite molto nella vita): come si parla in pubblico, come si gestisce un corteo o un’affollata e tumultuosa assemblea ma anche come ci si destreggia in ristrette riunioni operative; imparai a inventare slogan e a scrivere documenti politici; imparai a fare le ronde notturne antifasciste nonché i turni di vigilanza in una sede di partito; imparai a fare le ore piccole assaporando il piacere delle interminabili e il più delle volte inconcludenti conversazioni notturne con gli amici triestini girovagando per strade e osterie o restandocene chiusi in stanze disordinate o case piene di fumo delle quali ho ormai perso l’ubicazione topografica ma non il ricordo (invece per quel che riguarda il bere – molto, anche se non sempre bene - avevo già conseguito …master e dottorato magna cum laude a Udine insieme agli amici del liceo).

 

               Ma non finì lì, anzi: il mio ’68 continuò a Udine e fu altrettanto se non più di quello triestino un periodo ricco e fruttuoso per la mia formazione e crescita personale. A fine ’70 accettai la proposta di fare il segretario provinciale della Federazione giovanile comunista e mollai l’università nonostante che avessi un libretto eccellente. Fu una decisione che scontentò un mucchio di gente: i genitori e i parenti in primis (la zia Norina non mi invitò per mesi da lei il giovedì a mangiare gli gnocchi), ma anche i giovani compagni di Udine che si videro catapultare sulla testa e imporre da fuori un alieno inesperto e assolutamente ‘vergine’ di vita politica di partito (e al quale fecero giustamente una guerra spietata). Ma quell’incarico, accettato troppo impulsivamente e sventatamente quellrispetto alle mie capacità (e anche quelli successivi alla Lega per le autonomie locali, l’antenata dell’Anci, e nel consiglio di amministrazione dell’Atm di Udine), mi dette la possibilità di fare esperienze e di maturare competenze tali che non sarei quello che sono se non ci fossero state.

               Cito alla rinfusa e soltanto quelle più significative: dovendo fare riunioni in tutto il Friuli presi finalmente la patente d’auto (in imbarazzante ritardo rispetto ai miei amici coetanei); a Ovaro, insieme alla Cgil e al compagno Graziutti responsabile di zona del Pci, gestii uno sciopero delle operaie in una fabbrica di accessori per orologi; durante il periodo natalizio del ’72 organizzai il montaggio e la gestione di un tendone in piazza Garibaldi per raccogliere firme contro la guerra nel Vietnam; presi per la prima volta l’aereo; partecipai alle riunioni del Comitato centrale della Fgci (segretario nazionale era Renzo Imbeni, futuro sindaco di Bologna, e tra i componenti c’erano D’Alema, Mussi, Veltroni, Petruccioli) e in alcune occasioni anche a quelle del Comitato centrale del Pci (prima con  Luigi Longo e poi con Enrico Berlinguer segretari); feci un memorabile viaggio nell’allora Unione Sovietica con un «Treno dell’amicizia» dell’associazione Italia-Urss: Kiev, Leningrado, Mosca e ricoprendo la più alta carica politica della comitiva fui incaricato di tenere un discorso ufficiale ai giovani del Komsomol nella città delle «notti bianche» (ricordo che provai a spiegare la linea del Pci per una via italiana al socialismo, ma sono sicuro che l’interprete per evitare complicazioni omise questa parte del mio intervento); e poi i grandi scioperi nelle scuole superiori di Udine con migliaia di studenti portati in piazza a chiedere il diritto allo studio e a protestare contro la scuola di classe. Lo facevamo a giorni alterni noi della Fgci e i gruppettari di Lotta Continua o gli emme-elle di Servire il popolo…

               E poi in quegli anni ci fu la scoperta dell’arrampicata e il mio battesimo come scalatore autiodidatta (la montagna l’amavo già dai tempi del liceo: per due anni, a settembre, prima che iniziasse la scuola, dopo esserci susinati in bici la strada da Udine a Forni Avoltri, salivamo prima al rifugio Marinelli e poi guidati dalla luce della luna in cima al Cogliàns per goderci il sorgere del sole) in cordata con due compagni che non ci sono più: Andrea Lizzero e Mario Blasone. Una passione che deve avere radici molto profonde se continuo ancora a fare il 6° in libera (magari non più da primo come qualche anno fa) o a scalare i Quattromila delle Alpi.

               E ora vorrete sicuramente sapere qualcosa sulle conseguenze e gli effetti che ebbe su di me quell’altra fondamentale ‘rivoluzione’ provocata dal vento del ’68: la rivoluzione dei costumi e delle abitudini sessuali. Beh, non c’è molto da dire, anzi per un bel po’ quasi niente. Zero tondo durante il liceo, idem negli anni triestini (oh, certo, molti baci e affannosi brancicamenti, ma nessun… trattamento completo se capite quel voglio dire; imbranato, goffo e maldestro, era giocoforza ricorrere al ‘metodo Leopardi’). La prima volta fu a Udine, quando avevo già quasi 23 anni; mi fecero da ‘nave scuola’ una giovanissima compagna romana trapiantata con la famiglia a Udine (facevamo l’amore su un lettino stretto e sudicio in una stanza gelida e spoglia di via Manin, il classico «buco da un amico, un letto a ore / su cui passava tutta la città») e poi, molto materna e accogliente, un’altra compagna, con una decina d’anni di più (galeotte in questo caso furono le nottate passate insieme in viale Duodo a tirar volantini al ciclostile). Ovviamente il compagno Cecotti (quello che mi ammoniva: «Stai con l’operaio!») mi sgamava ogni volta che cercavo di sgattaiolare non visto all’ultimo piano dove c’era la tana della Fgci. Intercettandomi sulle scale e guardandomi fisso negli occhi con dolcezza paterna (e forse un po’ di invidia): «Sei stato a fare l’amore, eh? - mi apostrofava –; ecco perché non eri al direttivo!».

               Ben presto però capii che la politica di professione era fatta per gente con uno stomaco più robusto del mio (e con sopra molto più pelo), mi ributtai nello studio, presi la laurea ed emigrai in Toscana dove vivo ormai da 40 anni, uno dei tanti friulani della diaspora che però continuano ancora a pensare e a sognare nella marilenghe.

Cesare Sartori