Sono nato in una famiglia siciliana (Isole Egadi: bellissime, ma da fame in quasi tutto il Novecento) con papà della Guardia di Finanza, mamma casalinga.

Eravamo 4 fratelli. Forse avete visto la più “piccola”, Alba, anche lei un po’ sessantottina. (Da assistente sociale presso l’ex OPP ha vissuto dall’interno l’esperienza basagliana con le luci e le ombre).
Sono cresciuto in un ambiente umano da paese, alla Lanterna, dove c’era qualche famiglia di finanzieri e dei servizi di sorveglianza dei fari e fanali.
Sono sempre stato credulone (anche oggi quando sento parlare qualcun* penso che dica cose vere e sentite!).

Per socializzare e giocare al pallone, frequentavo l’oratorio di via Franca. Non mi accontentavo delle attività sportive e volevo approfondire la conoscenza della Chiesa Cattolica e dei suoi punti fermi. Quindi
entrai nell’Azione Cattolica da “militante”, e tenevo i verbali (!) dei pre-juniores (14-16 anni). Il referente ecclesiastico mi criticava in quanto davo dei resoconti troppo analitici che “non servivano”.
Ma io continuavo. Anzi pretendevo di “capire troppo”, cioè mi ponevo troppe domande, Nel 1962-3, un gruppo di noi (forse qualcuno conosce Gianfranco Sodomaco e Aldo Marchetti), iniziò una lettura critica di un giornale laico, allora maledetto, L’Espresso. E poi ci piaceva molto il cinema, eravamo molto (troppo!) curiosi dei film di Buñuel. I nodi vennero presto al pettine: ci richiamarono all’ordine in quanto la Commissione di vescovi preposti a classificare i mezzi di comunicazione (erede diretta della Santa Inquisizione) aveva considerato quel
settimanale e quel regista, come la incarnazione del peccato mortale.
Non ci piaceva la proibizione e continuavamo a frequentare le opere peccaminose. Inoltre (ingenui) cercavamo ambienti cattolici del dissenso (“ Testimonianze” di Balducci, “Il Regno” di Napoli, ecc.) dove respirare un’aria di libertà.

Dopo qualche anno, ognuno aveva maturato una propria critica radicale della Chiesa e del cattolicesimo. Diversi restarono in una posizione di incertezza: l’uscita da quel mondo, con i suoi misteri della vita e della morte,
che i preti spiegavano così bene sembrava molto rischiosa. “Al di fuori della Chiesa non c’è salvezza” era penetrato fino in fondo ai nostri pensieri.
Devo ringraziare un prete reazionario, e probabilmente frustrato e infelice, don Rigonat, che un giorno mi diede una spinta definitiva. In confessionale, nella chiesa di Sant’Antonio Vecchio, mi intimò, per avere l’assoluzione, di rinunciare ad andare al mare dove peccavo col pensiero. Mi ricordò che ero destinato, se fossi
morto in quel momento, alle fiamme eterne dell’inferno. Eravamo ai primi di giugno! Ed io ero cresciuto facendo un centinaio di bagni di mare nella lunga estate del Molo Fratelli Bandiera. Gli dissi che non potevo promettere un impegno che sapevo di non poter mantenere. E mi congedò rifiutandomi l’assoluzione. Mi alzai e, barcollando, mi sedetti su una panchina di Piazza Hortis. Ero sconvolto e pensai che ero proprio mona a farmi umiliare e ricattare in quel modo. “Perché devo continuare a stare male? In fin dei conti non sono tanto masochista”. Chiusi definitivamente con la Chiesa, i suoi dogmi, la sua presunzione di detentrice della
verità e della liceità di dominare le persone.
Il trauma mi servì per non entrare in altre chiese con i loro preti-burocrati, le loro idee inamovibili, la dottrina autoritaria, la fede cieca nei dirigenti, la gerarchia soffocante.
E’ chiaro che il riferimento è al PCI, l’organizzazione che si presentava come potentissima e con cui bisognava fare i conti costantemente se si voleva essere attivi, ad esempio nell’Università. Da indipendente di sinistra e da antifascista partecipavo all’UGI e riuscivo, con molti sforzi, a raggiungere qualche piccolo risultato, Il ’68, come avevo scritto, fu una vera liberazione da questa soggezione che pareva inevitabile.