Per me il ’68 mette in moto un attivismo frenetico che ha generato un cumulo di esperienze, con i suoi errori e i limiti, che tuttora permane nella memoria personale e negli impegni reali. Nel ’68 pensavo che si potessero fare tante cose prima sentite come impossibili. In un certo senso, per la mia vita privata e pubblica, il ’68 non è mai finito.
Nell’anno dell’autunno caldo, il ’69 delle lotte operaie continue e massicce, cerco di solidarizzare con chi protestava, e sono migliaia solo a Trieste, contro lo sfruttamento in fabbrica e l’oppressione nella società. I cortei si susseguono per mesi, quasi ogni giorno, anche con modalità assolutamente impreviste.

Resto sorpreso e scosso quando vedo, in Corso Italia, un folto corteo operaio che spinge davanti a sé alcune persone insultandole e dileggiandole tirando monetine e sputi. Si tratta di crumiri, credo tutti impiegati, della Fabbrica Macchine Sant’Andrea sequestrati e puniti per aver tentato di lavorare durante uno sciopero. La scena mi sembra presa da un resoconto della “rivoluzione culturale” cinese che si scaglia (o almeno sembra) contro i privilegiati e i burocrati. Penso (ora penso sbagliandomi un poco) che il potenziale della rottura rivoluzionaria sia esistente e vivo.


Il fermento esplode anche nelle scuole medie con occupazioni e assemblee. Dopo gli sgomberi, parecchi collettivi si ritrovano nella grande e disadorna sede di Via Mazzini 11 dove spesso passano la notte. Lo spazio aperto dal settembre 1969 rappresenta un punto d’incontro essenziale che in parte sostituisce l’ospitalità della villa di Renzo P. in via Besenghi.


Un obiettivo ambizioso è quello di disporre di un nostro ciclostile aperto all’uso di tutti coloro che operano nell’area della sinistra extraistituzionale. Riusciamo a comprarne uno ad alcool con una sottoscrizione da parte di 30 compagni, di varie tendenze, che mettono ognuno 1.000 lire. Siamo orgogliosi di aver compiuto un passo decisivo verso l’indipendenza dalle strutture esistenti, soprattutto del PCI, che concedono talora di stampare dei volantini studenteschi, anche se con una certa diffidenza.
Il contratto della sede è sottoscritto da Umberto Tommasini, ultrasettantenne a suo agio fra i giovani ribelli più o meno libertari, a nome dello storico Gruppo Germinal. La sede serve anche per praticare la “rivoluzione sessuale” auspicata dal profeta Wilhem Reich.


Tutto cambia con le bombe di Piazza Fontana del 12.12. 1969 che, lo vediamo subito, blocca temporaneamente lo sviluppo dei movimenti operai e studenteschi. E’, per molti giovani, l’inizio di una chiarificazione sul ruolo repressivo dello Stato sedicente democratico. L’uccisione di Pinelli, con la formidabile mobilitazione successiva, fa saltare la manovra di criminalizzazione degli anarchici e dell’intera contestazione radicale, la tendenza verso cui si sta avviando buona parte del movimento del ’68 e ’69.
Per noi, adolescenti confusamente antiautoritari, si tratta di una sfida col Potere che non intendiamo perdere. A dire il vero, immediatamente si vedono in sede gli effetti della stretta repressiva con perquisizioni, denunce, intimidazioni varie. Molti giovani frequentatori sono consigliati dalle famiglie di evitare i pericolosi sovversivi. Ad ogni modo, la fitta e dilagante campagna di controinformazione riesce (oggi sembra un miracolo di Bakunin!) a rovesciare le calunnie antianarchiche sugli apparati di Stato e sui gruppi neofascisti che costituiscono la loro manovalanza.


Sul piano professionale, faccio riferimento ad un periodo più lungo che si protrae per decenni. Lavoro come supplente in vari istituti fino al 1975. Di questo periodo ricordo con soddisfazione l’occupazione del Carli del novembre 1973. Qui restai per un paio di settimane, unico docente (e precario!) con un cattolico di base, tale M. L’entusiasmo riscontrato in quegli studenti mi convince che sia sempre possibile innestare un processo di formazione politica alternativa se si blocca la normale attività istituzionale, di solito alienante e deprimente. Nella primavera del 1975 passo, con mia grande fortuna, all’ambiente universitario di Lettere, diretto da Giovanni M., grande storico con cui spesso ho polemizzato per motivi politici. Sono assunto con un contratto per geografia dall’Istituto di Storia e poi passo un concorso per assistente in Storia contemporanea. Quindi avvio l’insegnamento di Storia della Spagna Contemporanea, uno dei pochissimi attivati nelle Università italiane.
Al tempo stesso i rapporti e le discussioni con altri anarchici della regione triveneta ci portano a considerare il marxismo come una soluzione ideologica sostanzialmente autoritaria. Malgrado ciò, continua l’attività nel variegato movimento di lotta con ispirazioni diverse e divergenti. Una conferma delle critiche anarchiche al marxismo, quale proposta di partito e tattica politica centralizzatrice, lo abbiamo quando la polizia polacca spara sugli operai dei cantieri (Lenin!) di Danzica. Come militanti alternativi e antiautoritari della sede vogliamo diffondere un volantino di condanna dell’atto repressivo. Si oppone una parte dei frequentatori che sostiene che la denuncia degli assassinii della polizia polacca è un favore fatto al capitalismo in quanto, in fin dei conti, il socialismo reale sarebbe un aiuto ai movimenti operai e rivoluzionari dell’Occidente. Come libertari (non pochi anarchici hanno consciuto le dolcezze del paradiso bolscevico) diffondiamo ugualmente il volantino e in conseguenza escono dalla sede una decina di giovani che, guidati da un certo Paolo D., danno vita al gruppo di Lotta Continua. Per non venir confusi con gli anarchici “anticomunisti” L.C. ostenta in ogni volantino la falce e martello di dimensioni sproporzionate.


Per un certo periodo si ritrova in sede anche il collettivo “Matija Gubec” formato da contestatori sloveni poco soddisfatti dai partiti di sinistra. Riscontro che poi sono ripresi dal controllo della comunità slovena che, non sarà né il primo né l’ultimo caso, impone loro la priorità dell’appartenenza nazionale in qualunque impegno politico. Da qui nasce politicamente pure Milos B., poi senatore del PCI.


Non posso, in questo contesto, rievocare in modo analitico le attività ossessive, personali e collettive, che hanno ruotato intorno alla sede. Però cercherò di ricostruire un paio di eventi di grande rilievo per la mia formazione di ex sessantottino.


Nel 1972 propongo al neonato Gruppo Anarchico di Trieste (diverso dallo storico Germinal in cui è attivo praticamente il solo Tommasini) di partecipare alla Marcia Antimilitarista da Trieste ad Aviano promossa dai radicali con l’adesione di gruppi nonviolenti e di pacifisti. Quasi tutti rispondono che è sbagliato associarsi a presunti antimilitaristi borghesi come i radicali. Avendo partecipato ad altre edizioni della Marcia, ho invece verificato che lo spazio per un discorso antimilitarista e antistatale esiste e va colto. Decido quindi di dare la mia adesione individuale. Mi si obietta che non è possibile far parte di un gruppo e prendere iniziative individuali contrarie alla linea prevalente. Rispondo che questa è una forma di “centralismo democratico” impensabile in una realtà davvero anarchica. Affermo che questo principio è coerente piuttosto con il modello dei partiti, del PCI in particolare. Con sofferenza, esco dal GAT che avevo contribuito a fondare qualche mese prima.
L’organizzazione anarchica, secondo quanto appreso dai vecchi, rispetta le scelte dei singoli che agiscono apertamente a titolo individuale. In questa occasione devo fare i conti, sia pure a scala ridotta, con un problema che si è riproposto in diverse circostanze geografiche e storiche: essere organizzati ed essere anarchici è possibile? Ovvero, di quale tipo di struttura organizzata si discute? Col tempo la formula dell’organizzazione coerentemente libertaria mi convince sempre di più: va concretizzato un collettivo organizzato nel quale ci sia il principio della libertà individuale. E così aderisco, con pochi altri (tra cui la compagna dell’occupazione del ’68), al classico Gruppo Germinal.


Un'altra problematica, quella delle polemiche contro il “compromesso storico” a metà degli anni Settanta si impone con forza nel turbolento ’77. L’Aula Magna torna ad affollarsi di Assemblee generali dove domina lo scontro politico fra tendenze movimentiste e il PCI. La spaccatura, molto più profonda che nel ’68 e dintorni, sfocia in una serie di episodi davvero inediti. Nel marzo 1977, il Servizio d’ordine del sindacato e la polizia in borghese impediscono fisicamente agli studenti di unirsi, come deciso in Assemblea, alla manifestazione operaia in Piazza Garibaldi. Gli appartenenti alla Sezione Universitaria del PCI collaborano con chi si frappone tra il corteo studentesco e quello dei lavoratori. Il giorno dopo, in un’infuocata assemblea nell’Aula Ferrero, si dà la possibilità ai “picisti” di fare l’autocritica per restare nel movimento. Questi rifiutano e si mette ai voti una mozione, siglata da Renzo P., di espulsione del PCI. Siamo in 150-160 e, fatto per me assolutamente imprevedibile, passa per poco più di una decina di voti la mozione di allontanamento. Questa rottura frontale segna la fine di ogni collaborazione fra componenti istituzionali e tendenze radicali.


Un paio di mesi dopo, al Primo Maggio, il Servizio d’ordine del PCI si vendica delle sconfitte subite all’università e attacca violentemente gli anarchici e altri dissidenti dall’inizio alla fine del corteo: viene messa in atto una minaccia già espressa in diverse circostanze critiche.
L’anno dopo, il Primo Maggio del 1978 si svolge all’insegna del rapimento di Aldo Moro mentre i sindacati e il PCI si distinguono, a livello locale e nazionale, per la “linea della fermezza”. Essi rifiutano per principio la richiesta di liberazione di un detenuto in cambio della libertà di Moro. L’intero corteo triestino passa per Piazza Garibaldi dove gli anarchici stanno svolgendo una manifestazione che riprende la storia sovversiva del Primo Maggio. Qui gridiamo, con un impianto voci alquanto potente, il nostro rifiuto della trasformazione della data, nata rivoluzionaria e antistatale nel 1879, in una ricorrenza strumentale al compromesso istituzionale e, in questo caso, alla difesa cieca del sequestrato Moro.


Il 1978 segna comunque, anche per me, un fatto di grande rilievo: a Trieste nasce la prima libreria alternativa, Utopia 3, in via del Bosco. E’ così realizzato un vecchio sogno di alcuni giovani, tra cui mi ritrovo, scaturito dall’occupazione di Lettere del febbraio-marzo 1968. In questa nuova libreria si inaugurano le presentazioni di libri precedendo ogni altra libreria cittadina che si comporta come un qualsiasi negozio senza rendersi conto del ruolo centrale degli incontri culturali. Nel giro di quattro anni, Utopia 3 totalizza più di una trentina di presentazioni, diventa un centro per centinaia di persone alla ricerca di stimoli intellettuali e, in sostanza, avvia un dibattito triestino a più voci sui temi centrali per la crescita culturale e l’impegno sociale. Un paio di attacchi incendiari di matrice fascista ricorda comunque che la diffusione della cultura antiautoritaria può suscitare reazioni violente e davvero pericolose.
Contemporaneamente all’Università si forma un Collettivo Libertario, al quale aderisco come ricercatore di Storia, che ruota attorno alla Casa dello Studente e che sostiene l’antifascismo come base indispensabile per la crescita di qualsiasi movimento. Il suo culmine lo raggiunge nella primavera del 1979: un corteo di diverse centinaia di studenti, aperto dalle bandiere rossonere, risponde immediatamente all’attacco di una squadra fascista davanti alla Mensa. La manifestazione scende dal corpo centrale e si dirige verso il Viale Venti Settembre, tradizionale terreno di intimidazioni fasciste, per riaffermare la piena agibilità politica antifascista.


Gli anni ’70, così vicini e così lontani dal ’68, vedono anche la nascita di Radio Libertaria, creata dalla volontà (condita da una certa genialità), di un tecnico radiofonico che costruisce ex novo i macchinari necessari. A lui si associano una ventina di collaboratori, più o meno costanti, che si rendono conto dell’utilità di fonti alternative di informazione e di riflessione. Sono centinaia i dibattiti, tra i più significativi a Trieste, che vengono registrati e riproposti, fino agli anni Novanta, dagli attivisti muniti di un registratore modesto e di tenacia militante.
Il 1980 è segnato, per il Germinal e per me, dalla scomparsa di Umberto Tommasini, compagno attivo ininterrottamente dal 1921, volontario in Spagna subito dopo il golpe del luglio 1936 e qui combattente con Camillo Berneri e Carlo Rosselli.
La registrazione di più di 16 ore di conversazione sarà la base del libro edito nel 1984. A questo materiale aggiungo un lavoro minuzioso di diversi mesi all’Archivio Centrale dello Stato a Roma dove trovo molti documenti che attestano la pericolosità, realmente esistente, di Umberto per Mussolini e altri gerarchi fascisti. Per me l’esplorazione dei materiali della polizia fascista è un’attività, che occupa diversi anni, nella quale convergono la motivazione di fondo, più etica che politica, e l’uso di un metodo appreso nella ricerca universitaria. (Spesso ho trovato utile nel movimento la metodologia scientifica della storia e utile nell’Università i valori di fondo, etici e ideali, del movimento). Anche questo è un volume boicottato dall’establishment triestino che impedisce la sua presentazione un’ora prima dell’appuntamento. In conseguenza, la protesta contro la discriminazione e la manifesta ottusità suscitano un’attenzione crescente e “L’anarchico triestino” è diffuso localmente in centinaia di copie in poche settimane.


Al momento mi fermo qui.
Claudio V.