La cosa che mi ha sempre meravigliato quando mi è capitato di parlare del ’68 con i vecchi (ormai letteralmente) compagni è che ognuno di noi aveva ricordi completamente diversi, quasi che ognuno avesse vissuto un proprio ’68, a seconda delle esperienze politiche e culturali di provenienza, delle attese che aveva, delle proprie, personalissime, istanze di liberazione. In parte questo effetto è stato determinato dal fatto che nell'occupazione di Lettere non c’erano state né una chiara leadership né una linea politica vincente che potesse imporre una lettura unitaria degli eventi e questo è stato un bene perché ha permesso di mescolare culture e ha liberato lo spirito di iniziativa dei singoli, anche se, forse, ha indebolito il movimento. Raccogliere le tante e sfaccettate memorie diviene così condizione imprescindibile per ricostruire, almeno in parte, il mosaico.
Dato per scontato che i documenti raccolti nel libro bianco rappresentano la base di ogni ricostruzione, qui mi limito ad aggiungere alcuni fatti che lì non sono citati:

  • 1. Ovviamente l’occupazione non nasce dal nulla. E’ già stata ricordata l’occupazione dell’anno precedente in difesa del tribuno (ma non ne ho memoria perché io allora ero a Torino e, a dire la verità, è cosa che mi ha lasciato sempre molto perplessa – ma naturalmente i movimenti nascono dalle cose più strane). Successivamente per un anno a Lettere si è lavorato molto in vista dell’occupazione, discutendo della validità delle rappresentanze, della vetustà delle strutture e della didattica universitaria ecc. e anche diffondendo le voci critiche di cui si aveva sentore.

  • 2. All’assemblea che doveva decidere l’occupazione erano stati invitati anche esponenti di altre università in lotta, fra cui Masssimo Cacciari. Non sembri strano: la situazione di isolamento e il provincialismo del movimento a Trieste richiedevano di aprire il più possibile alle altre esperienze.

  • 3. Oltre ai terribilmente seri controcorsi si sono fatti anche dei gruppi molto più liberi, come un gruppo teatrale che ha anche prodotto uno spettaccolino. Soprattutto, però, si è sperimentato un vissuto completamente nuovo: fuori dalle gabbie, per la prima volta eravamo padroni di noi stessi e dovevamo inventarci una nuova cultura, nuove strutture universitarie, ma anche una nuova espressione della nostra corporeità e della nostra socialità. E’ da questo vissuto, credo, che si sprigiona la valenza sovversiva del ’68.

  • 4. In marzo una piccola delegazione ha partecipato a Milano al primo (?) convegno delle facoltà occupate. Ne abbiamo capito poco, anche perché iniziavano le diatribe tra gruppi organizzati e non possedevamo gli elementi concettuali per orientarci.

  • 5. Finita l’occupazione non era finita l’agitazione. Ci sono stati alcuni cortei interni. Si entrava nelle aule durante le lezioni (prevalentemente dei professori ostili, ma non solo), chiedendo a loro e agli studenti di mettere in discussione il tipo di insegnamento cattedrattico, la validità culturale del corso ecc. Per un certo numero di esami si è ottenuto di fare l’esame di gruppo con il 30 garantito. Si è comunque trattato di episodi, che non hanno coinvolto l’intera facoltà, a testimonianza, ancora, dell’intrinseca debolezza del movimento.

  • 6. In giugno, in occasione dello sciopero generale per il S. Marco, abbiamo rioccupato la facoltà per un giorno e una notte per preparare la partecipazione degli studenti allo sciopero, fare striscioni, volantini ecc. La giustificazione era che la Facoltà era nostra e ce la prendevamo tutte le volte che ci serviva.

  • 7. Nel ’68 – ’69 si era anche formato, a partire dalla Facoltà, un Comitato operai – studenti (con una quindicina di studenti) che interveniva al Cantiere di Monfalcone.

  • 8. Ci sono state altre due brevi occupazioni, nel ’69 e nel ’70, ma si sono trascinate piuttosto stancamente. Ad un’assemblea dell’occupazione del ’69 è stato invitato anche Franco Basaglia, che è stato capito parzialmente, ma che ci ha senz’altro aperto nuovi orizzonti.

Adriana Donini